LEVERET
Il guerriero aveva raccontato brevemente ciò che ricordava e ciò che gli era stato raccontato sui fatti accaduti nella radura. Li aveva esposti freddamente, come se non fossero accaduti a lui ma ad un’altra persona di cui non se ne sapeva nulla.
Leveret non era un oratore, e parlare in pubblico non gli era mai piaciuto, anzi, lo detestava. Anche adesso che aveva terminato di esporre il suo incontro con Roweena sembrava freddo e distaccato. Una sola cosa lo tradiva: i suoi occhi balenavano da una parte all’altra, scrutando ed osservando tutti i nuovi venuti. Li guardava intensamente, li fissava, senza timore di togliere lo sguardo, quasi a sfidarli. Ma il suo atteggiamento non era dettato dalla sfrontatezza, ma dal nervosismo. Troppe volte si era trovato innanzi gente che lo scherniva per l’orrenda cicatrice che gli deturpava il volto e per quella pronuncia sibilante di alcune parole... Era come se con il suo sguardo volesse ammonirli... “Attenti a voi...”
Leveret portava addosso gli abiti che aveva quando era giunto a Granburrone: pantaloni di lana nera, una giacchetta dalla stessa fibra e tinta, una cappa bianca con un balsone raffigurante una torre nella cui base si apriva un passaggio per un fiume. La cappa aveva visto sicuramente giorni migliori: era lisa e consumata in molti punti, l’insegna appariva scolorita e vi si notavano anche molti rattoppi. Completavano l’abbigliamento dell’uomo un paio di stivaloni di cuoio ed una lunga cintura.
Leveret doveva avere all’incirca un’età compresa fra i tretacinque ed i quarant’anni (i suoi capelli, tagliati assai corti, alla maniera di militari, cominciavano a tingersi di bianco), non troppo alto misurava all’incirca 6 piedi, forse qualche cosa di più ed occhi azzurro giaccio. I suoi tratti somatici non erano caratteristici di nessun ceppo umano, ed ovviamente lui si era ben guardato da raccontare la sua storia, le sue origini, la sua provenienza... limitandosi a raccontare solo della disavventura con il troll.
La cosa che più colpiva in Leveret, erano le sue cicatrici, segno della sua professione. Era assai evidente che quell’uomo si guadagnava da vivere con le armi. Le sue nodose mani erano ricoperte da una fitta ragnatela di cicatrici, e molte erano anche quelle sul suo viso, ma la più sorprendente e scioccante era quella che gli devastava la guancha sinistra: una profonda ed estesa ferita che partiva dallo zigomo e scendeva in verticale terminando sotto la mascella. La carne, i muscoli ed i tendini erano statati asportati, lasciando parte della mascella e della mandibola (incredibilmente illese) allo scoperto. Il colpo che lo aveva sfigurato gli aveva anche strappato alcuni denti. Ora, il viso di Leveret era perennemente contratto in una terribile smorfia, un ghigno inquietante, pauroso a vedersi, che dava all’uomo un’aria poco raccomandabile. DI contro, l’assenza di parte della dentatura e l’impossibilità di serrare le labbra sul lato sinistro della bocca gli avevano procurato un curioso e spesso comico difetto di pronuncia. Per lui tutto questo era assai difficile da accettare: per anni ha dovuto convivere con quello sfregio e quell’assurdo sibilo che storpiava quasi tutte le sue parole... dovendo poi sopportare sguardi, risatine ed atteggiamenti di scherno da parte delle altre persone. Ed era probabilmente questo timore che lo rendeva nervoso: stava scrutando quegli estranei perché temeva o si aspettava da loro quanto altri gli avevano già riservato in passato.
Come un automa, la sua mano correva spesso alla profonda cicatrice sulla guancia, come a cercarla per constatarne l’effettiva presenza... Sì, Leveret era chiaramente nervoso.
Quell’ambiente, che durante la sua degenza gli parve risanare tutte le sue ferite interiori, ora lo assillava, lo soffocava, lo tormentava... Dopo il suo incontro con sire Elrond vedeva in ogni membro della razza elfica una sorta di minaccia: magia, spiriti, poteri oscuri... tutto questo non lo capiva, e come per molti, ciò che non capiva lo temeva. Ora vedeva la possibilità di andarsene, di uscire da quel ambiguo regno che era chiamato Granburrone, e per farlo aveva dato la sua parola ad Elrond di aiutare un gruppo di uomini a compiere una strana e misteriosa missione.